La fiera letteraria

Lorenza Trucchi
Mafai alla Tartaruga
La Fiera Letteraria, 20 dicembre 1959

No. Mafai non ha tradito se stesso, né ha rivoltato la propria pelle quasi da sembrarci ora un altro, diverso, irriconoscibile. Mafai astratto è lo stesso Mafai di ieri: adopera gli stessi, inconfondibili colori caldi, amalgamati da una uniforme patina d'oro vecchio o, se si preferisce, dal riflesso di un rosso tramonto; la stessa ubbidiente, tradizionale materia; ama la stessa luce, solare e densa, una luce romana, che oggi nei suoi quadri si incrocia in minutissimi raggi, si aggroviglia in spirali trapela tra sottili reticolati di pennellate, quasi impazzita per non aver più nulla da illuminare, da riscaldare, niente su cui posarsi. La costruzione del quadro, ora senza oggetto, mantiene molte volte un fulcro centrale, un grumo più vivo di colore e di chiarità, quel centro, cioè, che un tempo era nelle tele di Mafai un volto, un fiore, un umile cespo di fresca verdura. Questi recentissimi quadri astratti di Mafai, esposti alla Tartaruga, sono, insomma, come gli specchi frantumati dei suoi quadri figurativi. Tra le minute particelle, tra le tessere bizzarre, tra i graffi disperati e i segni in libertà, di questi specchi in frantumi, ci sono i fiori secchi di Mafai, i suoi tetti, le sue case in demolizione, le maschere ironiche, le carni lacerate e sfatte dei nudi, le dimesse e quotidiane nature morte, i brulicanti mercatini. L'astrattismo di Mafai è dunque diverso da ogni altro: è motivato da un fatto personale, psicologico e morale, più che da una ragione formale o estetica e, alla fine storica; è il culmine oggettivo di un lento processo, cosciente, anzi volontario, di distruzione, è il progressivo "disgusto" verso una realtà che, per l'artista non ha più stimolo, non è più motivo di positiva ispirazione. Questa volontà di annientamento era, del resto, un vecchio tarlo che Mafai si covava nel cuore e nel cervello da anni. E' molto tempo ormai che il naturale decadentismo del pittore, l'innato amore per un mondo in decomposizione, simbolizzato nella sua sublime Roma, esausta sotto il peso di troppa storia o di troppa civiltà (sentimenti, questi, ai quali in tempi di retorica il vivo senso morale e lo squisito dono poetico di Mafai, seppero dare il valore di una protesta a rovescio), si andavano accentuando, prendendo sempre più chiaramente la strada di un crescente allontanamento dalla rappresentazione. Tuttavia l'astrazione di Mafai non consiste tanto in un processo di evasione o di superamento della realtà, quanto in una risultanza di distruzione di questa realtà, non più amica, non più consolatrice, quasi una ingenua equivalenza pittorica del caotico disordine nel quale questa realtà, e con lei il pittore stesso, sembrano essere caduti. In altri termini Mafai non astrae ma, piuttosto analizza, scompagina, annichilisce il proprio mondo interiore ed esteriore, spinto da un bisogno di sincerità assoluta, da un desiderio di fare luce in se stesso, di liberarsi da troppi fantasmi reali e fantastici, che insieme attentano al suo io più segreto e corrodono quel mondo esteiore.

Io non voglio, quindi, far nomi per la nuova pittura di Mafai, avvicinare a lui altri astratti, di ieri e di oggi. Non voglio offenderlo con il paraone di alcuni abili giovani esponenti della "nouvelle vague" pittorica, che hanno ben altre storie, ben altri programmi, o imbarazzarlo o intimidirlo (Mafai è abbastanza grande per essere anche umile) con il paragone di altri maestri di diversa cultura, natura, geografia. Né voglio dire – sarebbe troppo facile – se era meglio prima, quando era sicuro e maturo, o ora che è ancora incerto alla ricerca di un nuovo linguaggio. Così mi sembra inutile analizzarlo come se non lo avessimmo mai conosciuto, se non avessimo un debito di gratitudine verso di lui, per il tanto che ci ha saputo dare in tempi spesso aridi e difficili, ostili alla poesia, alla verità; come se ne ignorassimo il coraggio, l'anarchia, la "santa ignoranza", il grande dono pittorico.

Mafai, del resto, non è stato mai un pittore per critici, sebbene taluni insigni critici, Argan, Brandi e specialmente Venturi (quanto si è sorriso fuori posto tre anni fa alle veggenti parole di Venturi sul Mafai astratto) ne hanno, via via, analizzato la pittura. Mafai è, soprattutto, un pittore per poeti, e ha fatto bene a chiedere a un vero poeta, che non a caso è anche un acutissimo critico, ad Attilio Bertolucci, di introdurre questa sua mostra cruciale, di spezzare una lancia in favore di questo suo privatissimo e audace colpo di testa. Bertolucci, dopo un testo felice, pieno di umanità e di poesia, conclude:"Non vogliamo neppure tentare di ricostruire il cammino che ha portato Mafai a queste ultime esperienze, i fatti psicologici, le implicazioni culturali che stanno dietro questi quadri. Ci bastano i quadri, la loro qualità e insieme la garanzia della loro necessità spirituale, il premio a un'avventura eroica intrapresa contro ogni calcolo, contro ogni saggezza". Ed ha ragione a non voler fare quel cammino, perché non è un cammino in cui, come spesso i critici desiderano, i conti tornano al millesimo, né dove le derivazioni, le influenze, i motivi strettamente formali siano chiari e visibili. Mafai, se pure legge i poeti, non è un intellettuale; è piuttosto un artista all'antica, impulsivo e coraggioso, onesto e indipendente: egli ha dunque ragionato, ma non ha calcolato. Ha insomma dipinto astratto, perché aveva bisogno di dipingere in quel modo, di liberarsi da una antica e nuova stanchezza, da una improvvisa intolleranza per quei fiori, quei tetti, quei paesaggi, quelle nature morte, che i collezionisti e il suo largo pubblico amavano e che anch'io continuo a prediligere.

Ma, si badi, quella che in gran parte è la sua auto-analisi in chiave pittorica, non manca di essere, almeno in parte e sia pure indirettamente, una nuova protesta a rovescio. Mi spiego meglio: alla retorica, alla finzione, alla crudeltà, Mafai ha, di volta in volta, opposto, in altri tempi, la poesia, la verità, l'ironia; ora egli ci dà invece un magma senza forma, un caos lirico, ma anche doloroso, di colori e di segni. E perché? La dolce vita di Fellini – mi si permetta l'improprio e incauto accostamento – mi è venuta in mente proprio davanti a un paio di questi quadri. Anche nei punti più alti di quel colossale fregio barocco che sembra simbolicamente accumularsi e sgretolarsi su se stesso, quale è appunto il film di Fellini, si ha il senso di una analoga Roma in poltiglia, si ha l'avvertimento di una accorata anche se non polemica denuncia, che con forma diversissima e diversissimi risultati di arte, quasi inducono, per un breve attimo, ad avvicinare casualmente Fellini a quest'ultimo Mafai.

Ma forse questo è un andare oltre le vicende e le intenzioni di Mafai. Domani il pittore tornerà al lavoro, proseguirà per questa strada del non figurativo, a scavere in sé e fuori di sé; oppure tornerà indietro a ricostruire, certo con nuova ricchezza, in modi nuovamente figurativi la sua Roma, il suo ambiente. Domani la sua pittura ci darà le risposte che oggi – in questa mostra – non può o ancora non sa dare.

fonte: 

ARBIQ - Archivio Biblioteca Quadriennale di Roma   www.quadriennalediroma.org 

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